CARD. TSCHERRIG: EUCARESTIA E RESPONSABILITA’ IMPRENDITORIALE

Emil Paul Tscherrig, nunzio apostolico della Santa Sede in Italia, è stato nominato cardinale da Papa Francesco durante il concistoro dello scorso 30 settembre. Nato nel 1947 in un piccolo paese del Vallese, nella Confederazione Elvetica, Tscherrig ha viaggiato in tutto il mondo e svolto la sua missione apostolica in diverse nazioni e continenti. E’ stato il primo prelato non italiano ad assumere l’incarico di “ambasciatore” del Vaticano in Italia. L’abbiamo incontrato nella sede romana della nunziatura, per raccogliere l’intervista che segue, pubblicata sul numero 5/2023 di “Impresa Etica”.

Eminenza, lo scorso 29 aprile Lei ha celebrato la santa messa “Fratelli Tutti” promossa a Roma dall’ASGI – Associazione San Giuseppe Imprenditore, per unire imprenditori e lavoratori nella festa del 1° Maggio. Per quale ragione ha colto l’invito dell’ASGI?

«Sono anzitutto venuto perché convinto della bontà del progetto “San Giuseppe Imprenditore”. Ogni famiglia è una piccola impresa. Se i genitori hanno lavoro e i figli possono andare a scuola e prepararsi alla vita professionale, anche la grande famiglia, ossia la nazione, starà bene. L’Associazione San Giuseppe Imprenditore è un appello alla responsabilità degli imprenditori di mettere il loro genio, i loro mezzi e i loro progetti al servizio delle famiglie che vivono alla loro dipendenze, per farle progredire e creare un mondo migliore. Penso che le parole di Lorenzo Orsenigo, presidente dell’Associazione San Giuseppe Imprenditore, dicono tutto quando invita all’eucaristia come centro della vita di un imprenditore cristiano impegnato. Osserva Lorenzo: “Seguendo le tracce del Vangelo e gli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, si può vincere la sfida per un’economia fraterna e sostenibile..”. Nell’Eucaristia, infatti, ognuno di noi pone sulla patena del sacerdote la sua vita, il lavoro che svolge e le opere che sono frutto delle sue imprese, affinché Cristo li presenti al Padre celeste e diventino, trasformati dal Risorto, una benedizione per noi e per gli altri».

Come piccolo imprenditore nella Nazareth di duemila anni fa, san Giuseppe è stato definito da papa Francesco l’ “artigiano del bene comune”. In che modo chi fa impresa oggi – credente e non credente – può prendere a modello la figura di san Giuseppe?

«In qualsiasi funzione o lavoro che svolgiamo, siamo “artigiani” che producono, attraverso il sacrificio del nostro tempo e il sudore della nostra fronte, un bene che, anche se sembra talvolta invisibile o irrilevante, arricchisce la vita dei nostri fratelli. Ha scritto Benedetto XVI nell’Enciclica Spe Salvi: “Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l’altra. Nessuno vive da solo” (n. 48). Questa realtà si esprime soprattutto nel lavoro dove, come in quello di san Giuseppe e dei padri e delle madri di questo mondo,si sacrificano le proprie energie e la propria vita per aumentare la vita delle persone amate. Così, nelle parole di Papa Francesco, “La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventando un po’ il creatore del mondo che ci circonda…” (Patris Corde, n. 6). Di conseguenza, per chi lavora onestamente, come lavoratore o imprenditore, per garantire il sostentamento dei suoi cari e dei suoi dipendenti, san Giuseppe può essere il modello di vita».

Nella visione del magistero sociale della Chiesa cattolica e nell’evoluzione della cultura imprenditoriale e del mercato, quale sarà l’impatto sociale dell’imprenditore nei prossimi anni?

«Anche per le imprese corrono tempi difficili. Lo sviluppo tecnologico/robotico diventa una grande sfida per qualsiasi impresa, perché la obbliga a rinnovarsi continuamente e a investire per il futuro. Nonostante questa pressione, mi sembra che il vero imprenditore sia quello che si assume la responsabilità della sua azienda e dei lavoratori malgrado i rischi e le incertezze, e non abbandona il campo con la prima crisi. “La gente sa riconoscere i buoni imprenditori”, scrive Papa Francesco, e li sa distinguere dagli imprenditori “mercenari”. Un segno distintivo del buon imprenditore per Papa Francesco è la condivisione. Una forma può essere la filantropia, cioè il condividere i propri averi con la comunità; un’altra, tanto necessaria oggi, è la creazione di posti di lavoro per tutti, in particolare per i giovani. Essi diventano il motore dell’innovazione, sono pieni di energia e portano con sé l’entusiasmo richiesto per guardare avanti con fiducia. Già il fatto che nuove persone siano assunte implica la distribuzione dei propri beni e fa del lavoro una forma di comunione e di ricchezza condivisa in modo dinamico. E il Papa aggiunge: “Mi piace anche ricordare che l’imprenditore stesso è un lavoratore. Non vive di rendita; il vero imprenditore vive di lavoro, vive lavorando, e resta imprenditore finché lavora”. Se dimentica “l’odore del lavoro”, diventa un funzionario, “non tocca più i prodotti, perde contatto con la vita della sua impresa e spesso inizia anche il suo declino economico”. E il Papa conclude: “Il contatto, la vicinanza, che è lo stile di Dio: essere vicini” (Discorso all’Assemblea Pubblica di Confindustria, 12 settembre 2022)».

Quale potrebbe essere ruolo dei vescovi sul territorio per promuovere e vigilare sul buon lavoro e sul fare buona impresa?

«Nel corso della sua storia, la Chiesa è sempre stata vicina al mondo del lavoro e dell’impresa. Basti ricordare il monachesimo, che ha dato dignità al lavoro, e le diverse iniziative cooperativistiche e di credito cooperativo, che hanno animato l’artigianato e la vita delle famiglie durante i secoli. Oggi ci vorrebbero nuove iniziative nel mondo del credito, che è spesso negato alle famiglie e alle piccole imprese, e nel campo della cooperazione regionale e nazionale, attraverso nuove imprese che costruiscono comunità e permettono ai giovani di rimanere a casa invece di dover emigrare. I vescovi sono consci di queste necessità e già ora intervengono in vari campi della vita socio-economica, come nelle iniziative contro l’usura e nel sostegno di famiglie e piccole imprese. La sfida dei vescovi è infatti quella di noi tutti,e cioè integrare l’insegnamento della Chiesa nelle multiformi situazioni della vita quotidiana. Il Concilio Vaticano II ha affidato questo compito soprattutto ai laici, affinché, come imprenditori, lavoratori e fedeli, vivano in mezzo “agli affari profani” e “ripieni di spirito cristiano, esercitino il loro apostolato nel mondo, a modo di fermento” (Decreto sull’Apostolato dei Laici, n. 2)».

 Daniele Garavaglia

 

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