TELEFONO ARANCIONE: COMPAGNI DI VIAGGIO DI CHI VUOLE RINASCERE

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Fabio Bonanni è il responsabile della segreteria dell’ASGI – Associazione San Giuseppe Imprenditore e coordinatore del Telefono Arancione. Sposato con Antonella, tre volte padre e cinque volte nonno, nel gennaio del 2002 ha dovuto dichiarare il fallimento della sua impresa grafica, ma nella testimonianza che dà della propria storia spiega che è un uomo che ha subito un fallimento e non un “fallito”. In che modo la sua esperienza personale si intreccia con la storia dell’ASGI e la nascita del Telefono Arancione? «Ho conosciuto Lorenzo Orsenigo, il fondatore dell’ASGI e del Telefono Arancione, qualche anno dopo il fallimento della mia attività. Mi ha subito colpito la traiettoria umana di un imprenditore che, vedendo crollare la propria impresa, si domanda cosa può significare per lui questo evento e decide di mettere al servizio di altri la propria esperienza, fondando l’associazione intitolata a san Giuseppe. Di fatto, una storia di rinascita nella riscoperta della fede, che ha segnato un nuovo inizio anche per me».

Nel 2016 nasce il Telefono Arancione, per consentire a imprenditori in grave difficoltà di segnalare bisogni e urgenze. Quale risposta incontra chi chiama il numero 02.37904770?

«Rispondendo alle chiamate la prima domanda che mi si pone è: cosa posso fare io per questi imprenditori? Cosa ho da offrirgli? Semplicemente la mia esperienza quindi, ciò che più mi ha aiutato e ciò che mi è mancato di più. Dal punto di vista tecnico essere affiancato da professionisti che verifichino in modo oggettivo la situazione e quindi propongano la strada da percorrere: ripartire o chiudere l’attività. Come ASGI ci avvaliamo della collaborazione di un team di professionisti, in questo momento circa una ventina sparsi sul territorio nazionale, che interviene cercando di risolvere il risolvibile, sempre che la persona sia disposta a seguire. Nel caso invece non fosse possibile salvare l’azienda, entriamo nella seconda questione: accompagnare dal punto di vista umano chi si rivolge a noi, e gestire la fase del fallimento in modo da tutelare la persona, la sua famiglia, i suoi beni. Con la consapevolezza che il fallimento non può essere un evento definitivo; è l’inizio di un cammino, facile a dirsi ma molto più complicato a farsi».

Come si costruisce un percorso di sostegno a chi, spesso, è rimasto solo?

«Bisogna accettare di essere accompagnati in un percorso che ti renda capace di “alzare lo sguardo”. Cioè di capire che non siamo dei falliti ma degli uomini che hanno subito un fallimento. Ci vuole qualcuno che ti faccia vedere oltre il buco nero che hai davanti e immaginare che in fondo alla galleria ci sia la luce, ma tu non la vedi, devi cioè dare credito a qualcosa che sarà ma non è ancora. Quindi devi affidarti a qualche cosa fuori di te, perché solo così puoi porre la speranza di una prospettiva ora per te inimmaginabile oltre l’abisso, che è l’unica cosa che vedi. Rispetto alla mia esperienza di rinascita, quando posso invito a cena a casa mia le persone che incontro in questa opera di carità, perché possano vedere che una vita esiste anche dopo essere caduti da cavallo. Quando ti senti veramente e concretamente accompagnato, ti commuovi, cioè ti muovi, e questo è fondamentale per la ripartenza, perché il primo problema del fallimento è la solitudine alimentata anche dalla vergogna».

Perché è così importante l’incontro umano e personale con chi chiede aiuto?

«Perché quando sei schiacciato da una situazione di crisi sbatti la testa contro i colleghi, i collaboratori, le banche, lo stato, a volte la moglie, spesso gli amici, e la mano non ha più nemmeno la forza di cercare qualche cosa a cui aggrapparsi. Le possibilità diventano solo due:il suicidio, e non penso solo a quello fisico, oppure una mano amica che ti afferri e ti aiuti a  sollevarti per iniziare a evitare i colpi. Per cui hai bisogno di amici che ti accompagnino col cuore, che ti vogliano bene, non basta quindi la compassione, ci vuole la passione per quello che sei, non per quello che fai. Un giorno un amico mi ha domandato: ma tu ti ritieni responsabile di quello che è successo? Al momento ho risposto istintivamente no, senza pensarci troppo. Quella domanda però ha continuato a rimbalzarmi nella testa, ci ho messo parecchi anni per capire che sì,sicuramente avevo delle responsabilità. Nel mio caso l’inizio del tracollo parte da mie mancanze, dal trattare alcune cose con superficialità».

La consapevolezza degli sbagli commessi aiuta a capire meglio come aiutare la persona in difficoltà?

«Quando incontro l’imprenditore in crisi cerco sempre di riportarlo a una prima presa di coscienza: bisogna sempre ripartire dal proprio limite, se non si riconosce questo la domanda sul significato della propria vita non sarà mai vera: io da cosa sono definito? Alzare lo sguardo è possibile solo se questa domanda urge veramente dentro di noi; questo passaggio non lo si può fare da soli, soprattutto nel lavoro. Basti pensare agli amici che fino al giorno prima ti portano in palmo di mano perché sembri essere un imprenditore di successo e di colpo, se ti incontrano per strada, la attraversano per non salutarti. Ricominciare con questa umiltà comporta delle fatiche durissime, ma essenziali al nostro cambiamento. Ricordo che spesso uno dei problemi che si pone è l’urgenza di trovare un nuovo lavoro e si è disposti ad accettare incarichi molto più umili di quello per cui noi pensiamo di essere fatti. Ecco di nuovo un fatto reale: devi poter cambiare per rispondere concretamente ai nuovi bisogni tuoi e della tua famiglia».

Questo cammino insieme richiede disponibilità e tempo?

«Io posso guardare un imprenditore che sta fallendo con vera passione se riconosco che io, come lui, sono pieno del mio limite per cui tutti e due abbiamo bisogno di un cammino verso una nuova meta, e quindi insieme tendiamo verso un futuro possibile, senza mai la pretesa che il cambiamento avvenga quando lo vorrei io, né il mio né il suo. Lasciandoci il tempo per cui questo accada. Il punto perché una vita scorra e ricresca è che venga continuamente educata al rapporto con la realtà. Che si guardi la realtà! Ciò che occorre non è innanzitutto la giustizia ma la misericordia. Di fatto, io non sopportavo che mi avvicinava con falsa amicizia per poi alla fine sparire, anteponendo alla stima e alla misericordia il giudizio che io, rispetto a lui, ero un di meno, ero uno meno capace. Per chi ci cerca e si affida alla nostra amicizia, noi del Telefono Arancione forse non saremo i consiglieri più bravi ed esperti, ma di certo siamo veri compagni di viaggio. E come scrive la poetessa Anne Carson, l’unica regola del viaggio è non tornare come sei partito. Torna diverso».

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