OLTRE LA CRISI: INTERVISTA ALL’ARCIVESCOVO DELPINI

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Eccellenza, si è appena concluso l’anno che Papa Francesco ha voluto dedicare a san Giuseppe, con la lettera apostolica Patris corde. Giuseppe, sposo di Maria e padre putativo di Gesù, attuatore creativo e coraggioso del “progetto” di Dio sull’umanità. E come tale, come piccolo imprenditore carpentiere nella Nazareth di duemila anni fa, “artigiano del bene comune”. In che modo gli imprenditori di oggi – credenti e non credenti – possono prendere a modello la figura di Giuseppe?

«Per quello che si può capire di Giuseppe, credo che sarebbe molto imbarazzato se gli dicessimo che gli imprenditori del XXI secolo lo prendono a modello. Credo che sarebbe ugualmente sorpreso se sapesse, come in effetti, evidentemente sa, che è preso a modello come sposo e come padre. Forse Giuseppe è più tranquillo se è preso a modello di uomo giusto, che si lascia guidare dagli angeli di Dio, perché si è sempre ritenuto troppo inadeguato alla missione che gli è stata affidata. Si può credere, però, che Giuseppe intende il lavoro come un patrimonio, un tesoro di competenza, intraprendenza, spirito di servizio. È il patrimonio ricevuto dal popolo, dai padri, da quelli che hanno insegnato il mestiere. È il patrimonio da trasmettere in eredità alle generazioni future. Perciò Gesù è designato come il “figlio del carpentiere”. Questo è un tratto decisivo che gli imprenditori di oggi sono chiamati a imitare, guardando a san Giuseppe: intendere il lavoro come un patrimonio».

Restituire dignità al lavoro ed etica all’economia, è l’invito di Papa Francesco, secondo il quale “non c’è buona economia senza buoni imprenditori”: da dove si ricomincia?

«I buoni imprenditori ci sono, sono tanti. Non siamo al punto da ricominciare, ma in una storia da apprezzare e continuare. Io ho conosciuto ”buoni imprenditori” in ogni campo dell’attività produttiva. Si continua: nella persuasione che il bene fa bene e che il bene può contagiare gli altri e incoraggiare molti. Chi è il buon imprenditore? Non toccherebbe a me descriverlo. Mi azzardo a mettere in evidenza alcuni tratti. Il buon imprenditore è un buon amministratore, si cura che l’azienda vada bene. Non si lancia in avventure imprudenti, non crede nel guadagno facile, non ritiene che bastino le buone intenzioni e la buona volontà. La buona amministrazione è frutto di esperienza, competenza, prudenza. Il buon imprenditore è promotore di competenze: sa scegliere i buoni collaboratori, sa apprezzare le innovazioni promettenti. Non pretende di sapere tutto, ma sa mettere a frutto quello che gli altri hanno da insegnargli. Sa pesare le qualità delle persone. Il buon imprenditore è capace di tenere vive le motivazioni di tutti i lavoratori, sa premiare chi lo merita, si prende cura delle condizioni dei lavoratori in azienda e in quello che comporta arrivare in azienda. Condivide con i lavoratori i fattori per cui l’azienda è un valore per la società: per quello che produce, per come lo produce».

Come è possibile favorire il senso di condivisione e comunione nelle tante “famiglie” aziendali?

«Le associazioni che le aziende costituiscono devono saper contemperare fattori di tensione. Tutti possono essere convinti che “l’unione fa la forza”; però è significativo anche il principio che la concorrenza stimola all’eccellenza. Fattori di condivisione sono principi comuni e interessi comuni.  Che cosa unisce? L’avere un nemico comune da combattere: contrastare altri produttori di altri Paesi che invadono mercati con prodotti di minore qualità e con promozioni dei rispettivi governi e con scarsa tutela da parte del proprio governo; prendere posizione di fronte al fisco e alla burocrazia, che non sono “nemici” per principio, ma spesso pongono ostacoli sproporzionati. Che cosa unisce? L’avere obiettivi comuni, come esplorare altri mercati, come il propiziare i macro investimenti per infrastrutture e innovazioni tecnologiche».

La concezione tipicamente ambrosiana del rapporto tra economia e solidarietà può trovare nuove modalità di espressione e opportunità di realizzazione?

«C’è la funzione pubblica che praticando il criterio della sussidiarietà può rendere evidente che anche la solidarietà è un fattore promotore dell’economia. Se cresce il benessere di tutti, se diminuiscono le famiglie povere, l’intera società può conoscere un promettente sviluppo economico. Quali modalità operative possono esercitare un influsso positivo? Credo che si debba arginare il criterio del massimo profitto possibile subito per applicare il principio del giusto profitto promettente per il presente e per il futuro. È necessario evitare lo spreco, creare forme di circolarità dei beni prodotti. È necessario tenere lontano il “denaro sporco” e recidere le radici che lo alimentano, come un cancro che fa ammalare tutto l’organismo. Si devono affrontare insieme le problematiche più acute: l’emergenza demografica e l’emergenza educativa».

Nella visione dello sviluppo sociale ed economico, la Sua raccomandazione è di guardare verso un umanesimo promettente, cercando di essere “testimoni della speranza affidabile”: quale messaggio in particolare può essere rivolto a chi fa impresa tutti i giorni e deve guardare alle nuove sfide e criticità del mercato globale, cercando di creare e salvaguardare il lavoro per tutti?

«L’eccellenza del “made in Italy” può insegnare qualche cosa? Le dinamiche di alcune regioni d’Italia possono insegnare qualche cosa?».

In conclusione, quali sono le buone ragioni per le quali le donne e gli uomini di fede possono “dedicarsi all’impresa di aggiustare il mondo e di dare alla società e al pianeta un volto che renda desiderabile abitarvi”?

«Ogni paragone è sempre improprio e spesso confonde invece che chiarire. Però mi viene spontaneo fare riferimento alla generazione del “dopo guerra”, degli anni ’50 del secolo scorso, la generazione di mio papà e mia mamma, tanto per essere concreti. Forse possiamo immaginare qualche insegnamento per la generazione del “dopo Covid”.  Le buone ragioni per dedicarsi all’impresa stanno, a me sembra, nel concepire la vita come una vocazione a vivere, a dare vita, a curare condizioni che rendono desiderabile la vita. Nella vocazione di ciascuno c’è una parola che è promessa affidabile e convince a rimboccarsi le maniche: non aver paura della fatica, non sentire i bambini come un impedimento alla carriera e al benessere, ma piuttosto come un dono e una promessa di futuro, fidarsi della provvidenza di Dio e non sottrarsi alla responsabilità di coltivare una democrazia per una buona politica. È necessaria anche una formazione della coscienza per quella libertà spirituale che non subisce acriticamente il fascino degli stili di vita inventati e propagandati come condizioni di vita felice, grazie alla ricchezza, all’esibizionismo, all’ossessione per se stessi. L’individualismo esasperato sta conducendo la nostra società a suicidarsi, per pessimismo, per sterilità, per insofferenza verso quello che è faticoso, per paura del futuro. I cristiani sono il popolo della speranza: credono nella promessa di Dio e sanno di essere chiamati per nome e di avere responsabilità per sé e per il mondo. Speranza e vocazione sono le motivazioni decisive per dare futuro all’umanità».

Daniele Garavaglia

 

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