NON DI FALLIMENTO MA DI SOLITUDINE MUORE L’IMPRENDITORE

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Ho conosciuto Giacomo Verrua nel 2016. Per me, per noi dell’Associazione San Giuseppe Imprenditore, è stato quello che, come accade al diffondersi di un’epidemia (ogni riferimento all’emergenza Coronavirus non è casuale, n.d.r.) viene definito il paziente zero: ovvero, il primo caso seguito dal Telefono Arancione, il servizio di ascolto e aiuto per imprenditori in grave difficoltà, nato per iniziativa di Lorenzo Orsenigo. Nel racconto della sua storia, Giacomo si identifica con le migliaia di artigiani, commercianti, piccoli imprenditori che dal 2008 hanno solcato il mare in tempesta della crisi economica. Molti sono affondati perdendo tutto il loro carico di esperienza, competenze, progetti, patrimoni, affetti. Qualcuno è affogato: sono stati oltre 2.000 i suicidi per ragioni economiche negli ultimi dieci anni. E le conseguenze della crisi economica da Covid-19 si faranno presto sentire. Giacomo ha resistito, non ha mollato quei pochissimi salvagente che gli sono stati lanciati (tra cui quello color arancione che risponde ogni giorno al numero 02-3790.4770, grazie al supporto tecnico di Phonetica e alla disponibilità volontaria di ex-imprenditori e professionisti) e ora può dare una testimonianza fondamentale sul deserto di solitudine e disperazione che attraversa chi è condannato – spesso senza alcuna responsabilità oggettiva se non quella di non essersi accorto o fermato per tempo – al fallimento aziendale e personale.

Da dove parte la tua avventura imprenditoriale?

«L’azienda di famiglia nasce intorno agli anni ’70, fondata da mio padre Costanzo, allora coltivatore diretto, che muove i suoi primi passi nel  settore legato all’abbattimento delle piante. I primi modesti impianti, la prima sega-tronchi, i primi appalti nel settore dell’imballo. Il fallimento di un cliente mette subito in serio pericolo la stabilità della piccola impresa, che intanto inizia a dedicarsi al settore edile, crescendo: il  mercato è favorevole, la concorrenza ancora poca e leale. Intanto l’azienda si amplia su un terreno confinante, con le prime strutture per il ricovero degli impianti e del legname.  Nel ‘92 i clienti legati all’edilizia  sono in costante aumento ed entro a tempo pieno in azienda;  iniziano gli investimenti strutturali con il primo capannone  in cemento armato. In un momento felice arriva anche il matrimonio, i figli.  La giornata è piena, non si cercano nuove prospettive fiscali ma lavoro, siamo quattro addetti».

E’ in questo periodo che, poco e mal consigliato, commetti un errore.

«Sì: impostiamo tutta l’attività su una Snc. Il consulente che ci segue non ci dà i giusti consigli, anche perché troppo preso a incassare le parcelle di un’azienda che tutto sommato cresce, lavora e paga. Affrontiamo nuovi settori, parte una linea di produzione dedicata all’arredo urbano e alle forniture per enti pubblici . Il mercato spinge, la struttura è vecchia: nel 2000 avviamo un importante piano di investimenti su macchinari e capannoni».

L’azienda è fortemente proiettata sul mercato, sembra viaggiare con il vento in poppa.

«La nostra nicchia di mercato è la lavorazione della travatura per tetti. Una grande scorta di magazzino  ci permette di fornire travatura in uso fiume di larice stagionato. Un vero asso nella manica, un’esclusiva quasi per tutto il Piemonte.  Intanto investiamo nell’immobiliare, per cercare di diversificare le attività . Nel 2005 presento un progetto di ristrutturazione per una borgata completa nel vicino comune di Verzuolo. Uno sforzo importante, che incuriosisce alcuni interlocutori esteri e ci mette in contatto con operatori del settore immobiliare del Nord  Europa. Intanto arriva il secondo gravissimo errore».

Da cosa deriva?

«Mi lascio coinvolgere in un appalto legato alle Olimpiadi di Torino 2006, per la realizzazione di impianti sportivi privati. Nascono due nuove società, in cui sono l’unico socio finanziatore. La troppa fiducia riposta nei nuovi soci, che gestiscono l’operatività, mi distrae dal seguire con più attenzione ciò che sta avvenendo: l’apertura di un nuovo punto vendita e l’appalto di Bardonecchia si rivelano un disastro, pozzi senza fondo, ma c’è lavoro, i numeri sembrano darci ragione e si perde di vista la matematica, quella reale. Dopo tutto abbiamo un buon patrimonio immobiliare, un cospicuo magazzino scorte, una certa solidità finanziaria. Le banche ci danno  fiducia, si porta avanti il piano di ristrutturazione aziendale. Ma arriva il patatrac: nel momento di massima espansione, il fallimento  di un cliente importante ci fa mancare ossigeno negli incassi. Si cerca di correre ai ripari, si parla con i fornitori, un nuovo istituto di credito è disposto a coprire questa  mancanza di liquidità , forse ce la facciamo a reggere l’urto…».

Ma qui si verifica il primo dei fatti incomprensibili, rivelatore di un modus operandi del sistema legato al “mercato” dei fallimenti…

«Un nostro fornitore, per ragioni ancora oggi non chiare, non rispetta gli accordi e mette all’incasso un assegno di poche migliaia di euro. L’istituto di credito interessato, per un motivo altrettanto inspiegabile, non ci avverte della presenza di questo effetto e lo manda in protesto. E’ l’inizio della fine. Il sistema bancario non tiene conto del potenziale che l’azienda ancora ha: a fronte di un giro di affari di diversi milioni di euro, 26 addetti tra artigiani e dipendenti, una pecca di pochi spiccioli sgretola i frutti del lavoro di una vita. La prima segnalazione  mette in allerta le banche, arrivano le prime richieste di rientro. Un istituto apre un’istanza di fallimento. Guarda caso: facendo un’analisi dei legami che nascono nei piccoli comuni, si trovano molte familiarità tra alcuni conoscenti e diversi personaggi inseriti nello stesso istituto. Solo coincidenze?».

E si arriva all’ambito giudiziario.

«Grazie a un amico avvocato presentiamo un concordato preventivo che viene accettato dal tribunale, bloccando l’istanza fallimentare. Il piano di rientro, supportato dai numeri ma non dal curatore, dopo una lunga battaglia non viene omologato ma neppure rigettato. Il magistrato capisce che il curatore ha commesso errori madornali e omesso di procurare dati sensibili: non ci fa fallire. Ma intanto la nostra credibilità con le banche è pari allo zero, non ci resta che parlare con i fornitori, solo che subentra un inatteso e determinante fattore: la crisi del settore. Qualche fornitore ferma le consegne, le commesse calano, la testa inizia a perdere colpi. Cerco quindi di avvicinarmi ad alcuni concorrenti per cercare una collaborazione. Ma è proprio da qui che arriva il colpo di grazia: un concorrente entra in possesso di tutti i nostri dati aziendali, a costo zero, e corrompendo alcuni dipendenti ci obbliga a presentare una definitiva istanza di fallimento.  E’ il 2013».

E’ in questi momenti che cominci a sentirti davvero solo e abbandonato al tuo destino?

«Non esistono più amici, tutti si scordano delle cene scroccate, dei week end a spese del sottoscritto. La giustizia non rende merito, non è uguale per tutti, è un potere nelle mani di pochi. Non si può perdere una causa di circa 50.000 euro solo perché il magistrato di turno non ha avuto tempo adeguato per studiare i faldoni . Non si può mandare all’aria un’azienda solo perché il club degli amici (inseriti nei posti giusti) ha messo gli occhi sul tuo patrimonio immobiliare. Non puoi sentirti dire da un sostituto procuratore della Repubblica: “Lei ha 3 figli piccoli, non faccia il martire, contro il sistema non la si spunta…”. Faccio partire le ultime disperate richieste di aiuto, mi rivolgo ai parlamentari locali impegnati a Roma, al Vaticano, a varie associazioni. Lo zero assoluto. La solitudine  è una sensazione difficile da spiegare, è un tracollo esistenziale che ti porta in mezzo a una strada, in tutti i sensi».

Finisci sulla strada…e qui incontri il Telefono Arancione.

«Sì, nonostante ci siano tre figli minori veniamo letteralmente buttati fuori di casa, senza nessun aiuto. Alle centinaia di richieste di aiuto inviate rispondono un importante uomo politico di Marene e, soprattutto, Lorenzo Orsenigo del Telefono Arancione.  Incontro Lorenzo in un autogrill vicino a Bra, un paio di bicchieri di vino e una sintonia di idee che fin da subito ci lega. In un momento in cui nessuno ti ascolta, perché sei diventato un soggetto scomodo, un fallito, avere un supporto anche inizialmente solo umano, fa la differenza. Trovare finalmente una persona che non ha problemi a farsi vedere vicino a te. Consigli che puoi condividere con chi non si è arreso, pensieri che ti portano ad avere fiducia, a credere di nuovo nelle tue possibilità, a tentare di riciclarsi alla soglia dei 50 anni, senza importanti titoli di studio e con poca padronanza della lingua inglese».

Qual è l’aspetto più devastante del fallimento della propria impresa?

«Una procedura fallimentare di fatto rende totalmente inutile l’essere umano, cioè l’imprenditore, che l’ha subita. Non sei più neanche un numero. Non sei un soggetto affidabile dal punto di vista bancario, non puoi neppure aprire un conto corrente. Sei messo in cattiva luce anche davanti a un possibile datore di lavoro: si assume più volentieri un fannullone che non un ex-imprenditore fallito con procedura aperta. Non ti puoi permettere un lavoro e un affitto, non riesci a mandare i figli a scuola. Sistemata la famiglia, in qualche modo, magari passi qualche mese d’inverno a dormire in auto. Se non puoi dimostrare di avere un domicilio, diventi irreperibile e, in quanto tale, d’ufficio ti levano il medico di famiglia e alcuni diritti costituzionali, come il voto ad esempio». 

Non hai trovato un po’ di supporto presso qualche associazione di categoria?

«Diverse associazioni hanno tentato di aprire al loro interno delle unità di crisi: ma cosa ne vuol sapere di crisi un impiegato che magari prende qualche migliaio di euro di stipendio? ASGI, con il Telefono Arancione, è diversa, perché vive grazie al lavoro gratuito di imprenditori e operatori che la crisi l’hanno vissuta sulla propria pelle;  è supportata da professionisti preparati e non legati esclusivamente alla parcella, è una comunità di persone che, per quanto possibile, è sempre presente. Nessuno è lasciato solo: un numero di telefono sempre attivo con persone rispettose della tua situazione e formate, è già di per se’ un grande aiuto. Non si creano false aspettative, non si illude il prossimo: si è aiutati a comprendere che ci sono comunque e sempre nuove opportunità, magari creando rete tra gli imprenditori amici perché alle volte, non avendo curriculum e titoli, la parola di un amico ti può mettere nella giusta luce per un anche seppur modesto lavoro. Nel mio piccolo, cerco di mettere a disposizione il “know how” che ho maturato mio malgrado, una sorta di master che mi è costato parecchio ma che può ora essere utile anche a chi si rivolge al Telefono Arancione. Purtroppo sono ancora molti i consulenti non preparati, o peggio più interessati al tuo patrimonio che non alla stabilità della tua azienda e della tua famiglia. Invece una dritta che ti arriva a tempo, da un amico, da un imprenditore che vede in te una persona in cui credere, può fare la differenza».

Daniele Garavaglia

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